The Silk Road
“Non viaggiavamo solo per commercio, ma dal desiderio di conoscere ciò che è mistero.
Per questo percorrevamo la strada dorata per Samarcanda” (James Elroy Flecker, 1913).
Samarcanda è quel luogo che appartiene alla fantasia dove la Storia ha voluto che si incontrassero genti lontane. L’estremo oriente e la Persia, i viaggiatori dell’occidente, l’impero Ottomano, Gengis Khan e Tamerlano, la Russia Zarista e poi quella Sovietica. Tra Europa e Asia c’è la terra della mescolanza. “Non è poi così lontana Samarcanda” è la violenza dell’immaginazione che ci conduce in compagnia di Marco Polo sulla via della seta tra ricchi mercanti, imperi fiabeschi, caravanserragli, venditori di spezie, aromi, tessuti e le mille e una notte.
A ridosso delle imponenti madrasse, tra intonaci rovinati, pavimentazioni precarie ed enormi cupole turchesi, ci sono ragazzini che tirano a calci un pallone. Le donne, con vesti sgargianti, passeggiano con i loro bambini nelle strade polverose delle città. Gli anziani, con barbe eleganti e suggestive, invitano lo straniero per un sorso di thè.
C’è un perenne andirivieni di carretti che portano il pane caldo dai fornai ai bazar, mentre nei mercati continuano le lunghe contrattazioni sui prezzi. C’è profumo inebriante di lievito, fumo denso di carne e grasso che si diffonde dai lunghissimi bracieri con gli shashlik e le cipolle. I rumori incessanti delle botteghe dove si lavora il ferro e il legno, i mercanti di frutta con rughe profonde e i banchi dove abbondano colori, forme, varietà incredibili. E ancora, distese infinite di uova, frutta secca, spezie, blocchi di zucchero non raffinato brillanti come cristalli.
I mercati iniziano nel fresco che precede l’alba e procedono vorticosamente fino alla mattina per poi sciamare nella lentezza della controra.
La bellezza è acerba, polverosa, ruvida.
"Tutto il mondo è paese non vuol dire che tutto è uguale: vuol dire che tutti siamo spaesati rispetto a qualcosa e a qualcuno." (Carlo Ginzburg - Occhiacci di legno). Oggi in occidente è difficile sentirsi stranieri, ci spostiamo tra luoghi senza identità (aeroporti, centri commerciali, palestre, metropolitane, catene della ristorazione) ed anche le nostre stesse città d’arte sono grandi "parchi divertimenti" per turisti, perdendo molto della loro identità ed influenza culturale. Solo la provincia, silenziosa e dimenticata, abbandonata quando non vantaggiosa, resiste con la lentezza e l’autenticità del suo passato.
L’Uzbekistan è ancora in equilibrio precario tra chi vorrebbe giocarsi la carta dell’occidente rassegnandosi a vendere l’anima, trasformando le sue madrasse in una Disneyland per turisti vogliosi di brividi orientali, chi invece guarda al suo vecchio colonizzatore e al passato sovietico oppure chi, nonostante la marcata e decisa laicità del suo stato, vuole tendere ad una islamizzazione della Modernità (F. Cardini, 2016).
Nel treno per Taskhent c'è un bambino. Sguardo fisso al finestrino. Nel lungo viaggio insieme vediamo gli sterminati campi di cotone, i pascoli di asini e mucche, villaggi lontanissimi, frutteti e le enormi cattedrali nei deserti per l’estrazione del gas. Il sole cala e l’ora tarda rinfresca finalmente l’aria nei vagoni. Il padre mi racconta che è il primo viaggio che fa con la sua famiglia ed è la prima volta che porta suo figlio in treno. Lui, figlio di un capotreno dell’unione sovietica, trascorreva intere settimane in compagnia del padre nei viaggi fino a San Pietroburgo. Ora accarezza il figlio e mi esprime un sentimento di gioia e dolce malinconia. Nessuna parola comprensibile ad entrambi traduce malinconia, sono sufficienti i gesti delle sue mani, le espressioni del suo volto, lo sguardo al figlio e qualche parola in inglese. È felice ed ha voglia di raccontarmi ancora. Il padre volle che frequentasse un instituto a taskhent per imparare un po’ di inglese, poi iniziò a lavorare. Oggi è un gommista in una piccola autorimessa vicino Chosur Bazar. Gli chiedo se ha nostalgia anche per l’unione sovietica. Lui, madre tagika e padre uzbeko, mi risponde che ora hanno una loro identità nazionale e che ama il suo paese. Gli chiedo perché, mi risponde di non saperlo, poi, accarezzando la schiena di suo figlio, aggiunge: è il nostro paese.
Per questo percorrevamo la strada dorata per Samarcanda” (James Elroy Flecker, 1913).
Samarcanda è quel luogo che appartiene alla fantasia dove la Storia ha voluto che si incontrassero genti lontane. L’estremo oriente e la Persia, i viaggiatori dell’occidente, l’impero Ottomano, Gengis Khan e Tamerlano, la Russia Zarista e poi quella Sovietica. Tra Europa e Asia c’è la terra della mescolanza. “Non è poi così lontana Samarcanda” è la violenza dell’immaginazione che ci conduce in compagnia di Marco Polo sulla via della seta tra ricchi mercanti, imperi fiabeschi, caravanserragli, venditori di spezie, aromi, tessuti e le mille e una notte.
A ridosso delle imponenti madrasse, tra intonaci rovinati, pavimentazioni precarie ed enormi cupole turchesi, ci sono ragazzini che tirano a calci un pallone. Le donne, con vesti sgargianti, passeggiano con i loro bambini nelle strade polverose delle città. Gli anziani, con barbe eleganti e suggestive, invitano lo straniero per un sorso di thè.
C’è un perenne andirivieni di carretti che portano il pane caldo dai fornai ai bazar, mentre nei mercati continuano le lunghe contrattazioni sui prezzi. C’è profumo inebriante di lievito, fumo denso di carne e grasso che si diffonde dai lunghissimi bracieri con gli shashlik e le cipolle. I rumori incessanti delle botteghe dove si lavora il ferro e il legno, i mercanti di frutta con rughe profonde e i banchi dove abbondano colori, forme, varietà incredibili. E ancora, distese infinite di uova, frutta secca, spezie, blocchi di zucchero non raffinato brillanti come cristalli.
I mercati iniziano nel fresco che precede l’alba e procedono vorticosamente fino alla mattina per poi sciamare nella lentezza della controra.
La bellezza è acerba, polverosa, ruvida.
"Tutto il mondo è paese non vuol dire che tutto è uguale: vuol dire che tutti siamo spaesati rispetto a qualcosa e a qualcuno." (Carlo Ginzburg - Occhiacci di legno). Oggi in occidente è difficile sentirsi stranieri, ci spostiamo tra luoghi senza identità (aeroporti, centri commerciali, palestre, metropolitane, catene della ristorazione) ed anche le nostre stesse città d’arte sono grandi "parchi divertimenti" per turisti, perdendo molto della loro identità ed influenza culturale. Solo la provincia, silenziosa e dimenticata, abbandonata quando non vantaggiosa, resiste con la lentezza e l’autenticità del suo passato.
L’Uzbekistan è ancora in equilibrio precario tra chi vorrebbe giocarsi la carta dell’occidente rassegnandosi a vendere l’anima, trasformando le sue madrasse in una Disneyland per turisti vogliosi di brividi orientali, chi invece guarda al suo vecchio colonizzatore e al passato sovietico oppure chi, nonostante la marcata e decisa laicità del suo stato, vuole tendere ad una islamizzazione della Modernità (F. Cardini, 2016).
Nel treno per Taskhent c'è un bambino. Sguardo fisso al finestrino. Nel lungo viaggio insieme vediamo gli sterminati campi di cotone, i pascoli di asini e mucche, villaggi lontanissimi, frutteti e le enormi cattedrali nei deserti per l’estrazione del gas. Il sole cala e l’ora tarda rinfresca finalmente l’aria nei vagoni. Il padre mi racconta che è il primo viaggio che fa con la sua famiglia ed è la prima volta che porta suo figlio in treno. Lui, figlio di un capotreno dell’unione sovietica, trascorreva intere settimane in compagnia del padre nei viaggi fino a San Pietroburgo. Ora accarezza il figlio e mi esprime un sentimento di gioia e dolce malinconia. Nessuna parola comprensibile ad entrambi traduce malinconia, sono sufficienti i gesti delle sue mani, le espressioni del suo volto, lo sguardo al figlio e qualche parola in inglese. È felice ed ha voglia di raccontarmi ancora. Il padre volle che frequentasse un instituto a taskhent per imparare un po’ di inglese, poi iniziò a lavorare. Oggi è un gommista in una piccola autorimessa vicino Chosur Bazar. Gli chiedo se ha nostalgia anche per l’unione sovietica. Lui, madre tagika e padre uzbeko, mi risponde che ora hanno una loro identità nazionale e che ama il suo paese. Gli chiedo perché, mi risponde di non saperlo, poi, accarezzando la schiena di suo figlio, aggiunge: è il nostro paese.