Tijuana, sul confine che divide le Americhe
Sul confine che divide le Americhe
Ho bisogno di ritornare qui per provare a raccontare questa parte di mondo. Ho bisogno di sentire le chitarre battenti, le fisarmoniche sulla spiaggia, le armonie dei cantanti che vendono canzoni per qualche pesos. L’odore denso delle cipolle, il fumo acre dei chioschi.
Ho bisogno di vedere l’oceano infrangersi tra le sbarre del muro mentre giovani madri, occhi scuri e trucco amaranto sulle labbra, seguono con lo sguardo i loro figli.
All’ombra del muro si incrociano i destini di migranti e clandestini, pendolari e trafficanti di droga, artisti e amanti con la solitudine nel cuore. Qui, all’ombra del muro c’è sempre qualcuno che suona, c’è sempre qualcuno che canta una serenata ai tramonti lenti nel malecón di Tijuana.
La parte triste dell’America
I miei viaggi per il Messico iniziano dalla Imperial Station di San Diego. Da qui partono i tram che portano a San Ysidro, ultimo distretto prima della frontiera. La Imperial Station è presieduta dalla Border Patrol mentre a pochi isolati, sulla dodicesima strada, “macchine di grossa cilindrata” possono comprare metanfetamine e cocaina mentre ai corrieri non resta che inalare toncho dalle lattine e cagare ovuli.
Nei tram che collegano San Diego al confine, c’è un flusso ordinato di persone. Miglia di pendolari in tutte le ore del giorno lo oltrepassano con i permessi di lavoro. I mezzi pubblici vengono utilizzati principalmente da ispanici, le scritte pubblicitarie e informative sono tutte in spagnolo. Ognuno porta le vesti della propria sorte: camerieri con camice bianche e nella busta le nuove scarpe nere da lavoro, cuochi con i pantaloni in pied de pole, giardinieri e operai con le scarpe pesanti, commesse con l’abbigliamento da lavoro che porta i loghi dei centri commerciali e ancora tanti ragazzi nati già negli Stati Uniti ma che vivono al di là del muro.
Arrivati a San Ysidro, Tijuana è sovrastata da una gigantesca bandiera messicana. Pochi metri sono necessari per superare il confine, lo oltrepasso mentre la polizia di frontiera messicana gioca con i telefonini guardando distratta il flusso d’ingresso. Appena fuori dalla dogana, due ragazzi suonano musica tradizionale. “Bienvenidos a Tijuana”. Benvenuti in America Latina.
Il paese dei balocchi
Entro in un taxi-bus, l’autista aspetta che si riempia prima di far partire la nostra corsa. Sono diretto verso la playa, lì dove il muro incontra il Pacifico. Una barriera di metallo sale e scende sulle colline di Tijuana prima di scontrarsi rapidamente a mare. Non riesco proprio ad immaginarlo un confine tra le onde, un mare diviso. Ed è infatti lì che si presenta ancora più violento, innaturale, rassegnato della propria esistenza.
Sulla playa incontro Carlos che mi accompagnerà tra i quartieri della sua città. Mi racconta di come Tijuana abbia subito le guerre tra i cartelli. Nella seconda metà degli anni duemila, le faide tra il cartello di Tijuana e di Sinaloa seminarono morti in ogni angolo della città e nelle periferie. In quegli anni il turismo diminuì drammaticamente, ma poi la città seppe risorgere. Dove prima c’erano negozi di souvenir, ragazzi e studenti (incoraggiati anche dai prezzi ridotti all’osso) hanno saputo riorganizzare quei luoghi e far nascere piccole associazioni, birrerie, locali con musica dal vivo, librerie e laboratori d’arte. Un piccolo grande movimento artistico nel cuore della città. Proprio qui incontro Marcela che mi racconta di suo fratello fuggito nel sud di Baja California dopo aver assistito all’uccisione del padre e dello zio a pochi metri da casa. Marcela lavora come commessa a San Diego, ha un sospiro di sollievo quando mi dice che la sua famiglia ha ormai chiuso con i cartelli. Il fratello non ha voluto vendicare la morte del padre e si è trasferito a Cabo San Lucas per studiare architettura.
Camminiamo su Avenida Revolución (l’arteria principale della zona nord), le farmacie sono aperte fino a tarda sera aspettando il gringo americano per la sua notte di follia: cialis e viagra vanno per la maggiore. Nelle traverse ci sono le strade del sesso con le donne in strada tra i fumi e gli odori forti delle cucine, agenti di sicurezza che cercano di spolpare con scuse improbabili i turisti americani, le insegne luminose dei bordelli illuminano la notte. A pochi metri ci sono ristoranti all’aperto con i mariachi che suonano musica tradizionale aspettano l’ingaggio per qualche serenata.
Per il gringo è la città pericolosa, il paese dei balocchi, la città del narcotraffico e dei capricci. Ma
Tijuana è molto di più, è tutto ciò che manca ad una qualunque città americana. Mi chiedo se questa sua diversità sia una forma di resistenza e di orgoglio. So di certo che è una sorpresa, è bellezza gratuita, colori e ritmi. È musica che suona, vita che scorre lenta, sincera, passionale, autentica.
Il crocevia delle Americhe
Dal distretto nord mi dirigo verso il Desayunadaor Salesiano di Padre Chava. È una delle strutture storiche di Tijuana che da anni si occupa di migranti, dando assistenza, cure, ristoro alle migliaia di persone che arrivano non solo dalle Americhe del sud, ma sempre più spesso anche dalle coste occidentali dell’Africa. È facile rendersi conto che non sono giorni come tutti gli altri: la polizia ha chiuso l’accesso alla strada, un centinaio di persone affollano lo spazio adiacente il refettorio. Tijuana, come un cono di bottiglia, deve far fronte ad una delle più grandi crisi umanitarie degli ultimi decenni. Ogni giorno migliaia di persone, principalmente haitiani, risalgono il Messico nella speranza di chiedere asilo e accedere agli Stati Uniti.
Nel salone di ingresso del refettorio c’è un Cristo su una croce di metallo grezzo, semplice, povero. Non si può non essere colpiti dalle sue braccia aperte come nell’attesa di un abbraccio, i palmi spalancati e un busto che restituisce dignità al nudo. Nel salone c’è un odore acre di disinfettante, i volontari lavano la struttura subito dopo aver servito il pasto. La grave crisi umanitaria ha dei numeri enormi e trova impreparati anche i centri di assistenza. Il refettorio Salesiano è uno dei pochi centri dove è possibile ricevere anche donne e bambini. Questo solleva alcuni problemi logistici, tanto da diffondere la richiesta di operatrici e volontarie donne che possano aiutare in questi giorni difficili. Tantissime le associazioni che collaborano con gli operatori, dai medici e infermieri per il primo soccorso e i controlli di routine, fino agli studenti di una scuola per estetisti che si offrono per la cura e il taglio di capelli (che per le donne afro è un problema non marginale). Una comunità di giovani islamici dalla vicina San Diego si occupa invece della distribuzione di pasti e indumenti. Ci sono comunità vive, tantissimi ragazzi messicani che con orgoglio vivono in modo partecipato l’emergenza e la vocazione all’accoglienza.
Tijuana per molti haitiani è la fine dell’incubo, la fine del lungo viaggio che passa l’America centrale e risale il Messico.
Sul malecón di Tijuana è quasi il tramonto, sulle grandi spiagge del pacifico i ragazzi scaricano la tensione tirando a calci un pallone, altri spingono lo sguardo oltre il muro guardando le luci di San Diego. Una scritta sul muro dice “The world is over”, le onde si sgretolano tra le sbarre della frontiera, il freddo della notte arriva puntuale con la sua ampia escursione termica, ma nel salone del refettorio Salesiano c’è una chitarra che suona, i bambini stanchi crollano nei sacchi a pelo, le madri cantano un inno alla vita sotto le stelle del Messico.
Il muro della vergogna e la porta della speranza
Se c’è un luogo che racconta al meglio il dolore e la violenza della barriera tra il Messico e gli Stati Uniti, questo luogo è senza dubbio il Friendship Park. Voluto dalla first lady Nixon agli inizi degli anni ‘70, il parco dista poche decine di metri dal mare ed è su entrambi i territori. Divenne infatti il luogo dove migranti residenti negli Stati Uniti potevano incontrare i loro cari rimasti o giunti a Tijuana. Negli anni novanta fu costruita la prima barriera in lamiera per dividere tutta l’area metropolitana di Tijuana con San Diego ma, proprio a ridosso del Friendship Park, la trama metallica fu tagliata in modo che i migranti potevano abbracciare e rivedere i propri cari. Post 11 settembre e con l’inasprirsi delle politiche protezioniste, fu costruita una seconda barriera (distante una ventina di metri dalla prima) molto più alta, illuminata e dotata di sensori di movimento. Ciò ha reso impossibile il raggiungimento del confine.
Solo con il costante ed enorme impegno di tante associazioni, da qualche anno si è riusciti ad ottenere il permesso di oltrepassare la barriera interna e ad avvicinarsi al confine. Ogni Sabato mattina, per poche ore e sotto la supervisione della Border Patrol, è così possibile incontrare i propri cari attraverso una fittissima rete di metallo che rende impossibile qualunque tipo di contatto.
Dal lato statunitense la maggior parte delle persone non hanno permessi regolari. Molti oltrepassano il confine con i coyoten (Nome che viene dato ai trafficanti messicani di migranti clandestini. Al costo di circa 10 mila dollari, conducono i migranti sui pericolosi sentieri nei deserti interni. La tratta è rischiosa ed ogni giorno per disidratazione e ipotermia molte sono le persone che perdono la vita durante il cammino. Altri vengono invece bloccati e rimpatriati dalla polizia di frontiera). I deserti non sono solo l’unica via di accesso, alcuni tentano di oltrepassare il mare di notte, altri lasciano scadere regolari permessi momentanei scegliendo la vita di clandestini.
Sul lato di Tijuana, molte sono le persone che sono state rimpatriate per motivi anche futili a cui non verrà mai più ridata la possibilità di applicare per il ritorno. Le regole per i permessi d'ingresso sono molto stringenti: istruzione, conti bancari, proprietà immobiliari, referenze/sponsor negli Stati Uniti sono solo alcuni dei requisiti per poter sperare nel rilascio dei permessi. È chiaro quindi che tutta la fascia di popolazione meno abbiente è totalmente incapace di seguire le vie legali anche solo per rivedere i familiari.
Una donna piange, accarezza e stringe la rete metallica mentre vede la madre allontanarsi al di là della barriera. La polizia di frontiera ha appena chiuso l’accesso. Il marito mi spiega che sono sei anni che alla moglie è stato ritirato il permesso di entrare a San Diego e rivedere la madre. In questo tempo neanche la nascita di Maria ha lenito il dolore per non aver potuto assistere il padre negli ultimi giorni. La giovane donna ha singhiozzi silenziosi e nascosti alle due figlie che intanto spensierate giocano nel parco.
Beto, poco più che ventenne, grazie ad alcuni cugini ha trovato lavora in una falegnameria nell’area metropolitana di Las Vegas. Ha viaggiato molte ore per raggiungere il parco. Lì ad aspettarlo la fidanzata. Il suo inglese è ancora acerbo e mi chiede di domandare alla polizia di frontiera se può avvicinarsi ad una zona priva della fitta rete metallica. Nonostante la concessione Beto e Rebecca si guardano da una distanza di un paio di metri. Vivevano a pochi isolati l’uno dall’altro ad Ensenada, poco a sud di Tijuana. I loro volti così giovani ingannano, hanno già vite da raccontare. Non c’è malinconia. Beto le dice che presto vorrà sposarla, Rebecca timidamente inclina lo sguardo e sorride felice all’ombra del muro.